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Nella Russia Sovietica, possedere o soltanto utilizzare una "semplice" fotocopiatrice senza autorizzazione era un atto sovversivo. La logica era questa: riprodurre testi o immagini in modo rapido può diffondere idee, e le idee - belle o brutte che siano, ma soprattutto se non controllate - possono indebolire il potere centrale. E sì, le nostre banali fotocopiatrici - oggi usate sempre meno in realtà - con le quali abbiamo copiato manuali, appunti, a volte interi libri, erano oggetti "proibiti" e, lo sappiamo, anche noi e i gestori delle cartolerie (o addirittura di certi fortunati negozi dedicati al "mondo della copia") sapevamo che "quelle fotocopie" rientravano in una zona grigia che oltrepassava la legalità. Nell'Unione Sovietica le macchine disponibili erano poche, custodite negli uffici statali, e il loro uso registrato meticolosamente. Copiare richiedeva il consenso di un funzionario, farlo di nascosto poteva significare l'arresto.
Ecco, la proibizione creava un paradosso: la tecnologia esisteva, ma la sua funzione principale - il condividere conoscenza - era soffocata. Teniamolo bene a mente.
Dalle nostre parti - e soprattutto oggi - nessuno ci impedisce di avere e usare una fotocopiatrice. Potremmo stampare un'intera enciclopedia senza preoccuparci di un funzionario che bussi alla nostra porta; certo, non si potrebbe venderla, ma regalarla o anche spedirla con l'appunto di fare altre fotocopie e di spedirle a loro volta. Qualcuno sente questo bisogno? Non oggi, almeno non negli ultimi vent'anni e non con l'avvento del computer prima e degli smartphone poi; non con l'avvento delle copie in PDF, "passate" all'amico o al collega partendo (in ordine cronologico e non esaustivo fino dell'avvento dell'internet a banda larga) da un CD masterizzato o una pen-usb per poi passare alle email, ai download da IRC, eMule, i vari p2p e i più recenti servizi di file sharing.
Ecco, la necessità di uno scambio di conoscenza è sempre stato presente (per fortuna) ma i limiti imposti ad una tale necessità - o quasi un diritto implicito se parliamo della conoscenza in sé come bene primario - si scontrano con una nuova e ben più flebile barriera: non più stanze in cui chiudere i certi "macchinari", ma licenze, contratti algoritmi, drm. Non è più una repressione, ma una clausola che vieta di condividere un file che hai pagato. Un ebook che non puoi copiare per archiviarlo, un software (proprietario) che non puoi usare fuori dai limiti imposti, una piattaforma che blocca un video per una canzone in sottofondo.
Ecco il vero e più importante cambiamento: se ieri le vecchie dittature temevano la diffusione di idee e conoscenza (ma purtroppo anche oggi le nuove dittature in alcuni paesi), oggi nel mondo occidentale la diffusione di idee e conoscenza passa in secondo piano, per puntare su "prodotti" di intrattenimento. Ma la mia riflessione non è sul discorso conoscenza/intrattenimento, bensì sul concetto di "copia". Prodotto o idea, nasce l'esigenza per le nuove economie di rallentare o frenare la "copia" perché temono la perdita del controllo sul prodotto (Nintendo in questi ultimi tempi è l'esempio perfetto). La logica è diversa, ma la tensione alla base del concetto è la stessa: chi controlla la copia controlla il messaggio.
Ma lasciamo da parte il "Prodotto" partorito dalle economie e concentriamoci soltanto sulle idee, sulla conoscenza in sé, all'attività e alla diffusione del singolo, ma anche di realtà che spesso non hanno fini di lucro (almeno non tanto lucro quanto ne genera Nintendo); a cosa pensiamo? Due esempi possono essere Wikipedia e Reddit, ma ce ne sarebbero anche altri.
Ed è qui che arriva un nuovo attore che sta capovolgendo non soltanto il modo di fruizione della conoscenza, ma sta rendendo la conoscenza un "Prodotto": l’intelligenza artificiale.
Non mi dilungo a parlare delle IA su come possano aiutare i ricercatori o distruggere alcune vite di persone - utenti o utonti - che non sanno, o non hanno ancora imparato, a gestire questa nuova macchina; di quelle notizie ne è pieno il web. Il mio intento è proseguire - nonostante le molte digressioni - sul solo concetto di copia, che nel caso delle IA non è - o non dovrebbe essere - una vera e propria copia 1:1, ma uno scraping.
Le IA non copiano fogli, ma vengono addestrate: assorbono e rielaborano informazioni - testi, immagini, suoni - provenienti da quello che noi possiamo chiamare il "sapere comune" su internet. Per addestrarle, gli sviluppatori utilizzano enormi quantità di dati raccolti attraverso il web scraping: bot automatici che "visitano" siti web, ne leggono il contenuto e poi lo archiviano. Parliamo di miliardi di pagine - articoli, interi forum, libri digitalizzati, immagini, codice sorgente di software - tutto finisce nei dataset di addestramento.
La cosa interessante è che lo scraping non distingue tra contenuti liberi o protetti: una poesia su un blog personale viene trattata allo stesso modo di una voce di Wikipedia. Alcuni Paesi lo considerano lecito per fini di “text and data mining”, altri lo vedono come violazione di copyright o di termini di servizio. Ma la scala è talmente vasta e la quantità di dati assorbita in modo talmente sistematico, che i dati vengono prima raccolti e le questioni legali affrontate dopo.
E qual è il risultato? Le IA imparano da un archivio globale che abbiamo costruito "tutti", ma il loro funzionamento e i loro output sono controllati (al momento) da pochi centri privati. È come se avessimo contribuito a una gigantesca biblioteca pubblica e, al momento di usarla, ci trovassimo di fronte a un ingresso sorvegliato, con tanto di biglietto d’ingresso e regole decise da chi a quel sapere non ha mai contribuito. Nella Russia sovietica il potere temeva che un testo potesse scaldare menti ribelli, oggi il timore potrebbe essere che un algoritmo possa generare qualcosa di “derivato” da contenuti protetti, oppure (e ben più grave) che concentri nelle mani di pochi la capacità di accedere e rielaborare il sapere collettivo. Una differenza sottile, a cui siamo ampiamente abituati, ma che non dobbiamo sottovalutare: ieri il confine era segnato dal potere politico, oggi da quello economico-tecnologico.
Ieri la fotocopiatrice era chiusa a chiave in una stanza, oggi l’“enciclopedia di tutte le cose” è ovunque, ma i fili invisibili che la tengono legata - licenze, API, accessi a pagamento - determinano chi può usarla davvero. E a tal proposito a breve scriverò un altro post in cui rispolvero il "vecchio" Progetto Xanadu, che se ancora oggi può considerarsi utopistico da come immaginato da Ted Nelson, potrebbe anche avvicinarsi alla realtà con l'aumentare della potenza di calcolo e assorbimento dati delle IA.
Al momento la vera domanda non è più “possiamo copiare?”, ma “chi decide cosa possiamo copiare e come possiamo farlo?”. E in questo, tra l’ombra di una fotocopiatrice sovietica e il silicio di un server moderno, la distanza è meno ampia di quanto potremmo pensare. Ma quali sono i rischi? Se nell'Unione Sovietica il paradosso era una tecnologia esistente ma soffocata nella sua funzione, oggi le nuove tecnologie - l'IA come motore di condivisione della conoscenza - possono creare un nuovo e più intricato paradosso: si viene invitati ad utilizzare e fruire della conoscenza (fin troppo!) ma la stessa conoscenza perde la propria identità: divorata, metabolizzata e rielaborata da un algoritmo viene restituita "all'umanità" come prodotto di consumo e non più come concetto di condivisione. La sua funzione principale perde nuovamente di significato, ma in maniera più subdola e silenziosa. In un certo senso lo sappiamo, ne abbiamo (ancora!) l'intuizione, ma nello stesso tempo non abbiamo abbastanza tempo per rendercene conto nella nostra sfera cosciente: e perché? Siamo troppo occupati a leggere, definire e (a nostra volta) riutilizzare il dato successivo prodotto dalla IA.
Nel futuro - ma già oggi - non ci saranno fotocopiatrici da nascondere o server da spegnere: il controllo non passerà più dalla limitazione fisica, ma dalla programmazione invisibile. Il rischio è che ogni dispositivo (i tanto amati smartphone), ogni software (interi sistemi operativi) e ogni intelligenza artificiale, saranno una sola entità: una scatola chiusa che saprà cosa puoi chiedere e cosa non potrai ottenere. Se non riuscissimo a mettere dei "limiti" all'assorbimento dei dati delle IA, non dovremmo immaginarci una catastrofe nucleare alla Terminator: a chi converrebbe? Chi manterrebbe il famoso l% se l'umanità fosse costretta a sopravvivere ad un disastro nucleare? No, le economie intelligenti non desiderano la distruzione del loro "mondo d'oro" né una censura evidente, ma la percezione della prosperità e (soprattutto) una selezione silenziosa: la risposta che arriva potrebbe non essere quella giusta? E chi potrà determinare cosa è giusto o sbagliato se le fonti cessassero di esistere e la fonte stessa fosse l'IA? L’informazione, la conoscenza, sarebbe "veicolata", la verità non sarà proibita ma semplicemente irrilevante, perché invisibile. Il sapere collettivo sopravvivrà nei datacenter, ma non come bene comune: sarà una proprietà privata, sarà concessa in licenza temporanea e ritirabile in ogni momento (non sta già succedendo con "certi" software, ebook e musica?). Gli utenti penseranno di avere accesso illimitato alla conoscenza, ma la finestra sul mondo sarà filtrata, personalizzata, tagliata a misura delle regole invisibili stabilite da chi possiede gli strumenti. Nessuno sentirà il bisogno di fare copie, perché crederà che ciò che ha davanti sia tutto ciò che esiste.
È un futuro ipotizzabile, nessuno ha il potere di prevedere i possibili scenari, ma i "paletti" di Reddit, di bloccare l'accesso e lo scraping a Internet Archive dalla Wayback Machine, seppure una piccola goccia in meno nell'oceano dei mega-data-center suggerisce che bisogna almeno tentare di mettere un limite all'indigestione di dati delle IA.
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