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Subculture Decentralizzate

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----------burt.oz.wilson--------CC-BY-SA-------------

Nuove subculture: come il modello dominante non può essere soverchiato.

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Esiste un ecosistema sociale segnato dall’iperconnessione, dall’infodemia e dalla perenne, continua - e spesso fastidiosa - esposizione ai social network. Succede per volontà, abitudine, noia, automazione inconsapevole, nel più ricercato (seppur logico) dei casi è per mero guadagno personale: influencer, venditori, proclamatori e guru di ogni specie. E qual è il ruolo de "l'osservatore attento"? Lui o lei, l'osservatore attento (che per comodità scriverò da qui in avanti come "OA"), prova un senso di saturazione, percepisce un clima di decadenza culturale e a volte tende a somatizzare le strane e nuove implicazioni del nuovo intero ecosistema, ma attenzione: pur non accettandole riesce a capirle. La chiave di lettura è semplice per quanto evidente. Oggi l’attenzione del prossimo è diventata merce, l'identità frammentata in profili, la comunicazione piegata alla logica della visibilità, della velocità e del profitto.

È uno scenario che potremmo definire "standardizzato" in cui trovano terreno (molto) fertile quelle che l'"OA" conosce come subculture. Lo abbiamo visto - seppure in modalità del tutto diverse - nell'ascesa del punk nell'Inghilterra degli anni '70: il moto di ribellione nasce dalla volontà di distaccarsi dall'ecosistena sociale dominate, e questo può avvenire in tanti modi quanti ne può immaginare la logica di un determinato periodo storico-politico. In una società dittatoriale non può manifestarsi in un atteggiamento "sopra le righe" - punk appunto - ma in maniera più silenziosa e culturalmente adattabile, nel caso delle libere democrazie il distacco (o il tentativo di esso) può avere molte più forme e arrivare anche alla manifestazione violenta.

Ora, nello scenario attuale occidentale di libera democrazia, il nostro "OA" vede nascere - o far parte in maniera inconsapevole - di più subculture alla volta: è il risultato dell'attuale ecosistema sociale (infodemia, iperconnessione, ecc.) e spesso si tratta di comunità "fluide" e non ufficiali (le subculture non lo sono mai, almeno finché restano tali) che rifiutano le superficialità del flusso continuo dei millemila "media" (raggruppando semplicisticamente in "media" tutto ciò che esce dalla rete che sia appannaggio dell'ecosistema sociale dominante), e cercano forme di pensiero alternative, più radicali e in controtendenza, ma allo stesso tempo fondate sulla conoscenza.

Potremmo scrivere per ore di "conoscenza", ma limitiamoci alla conoscenza in generale, quella derivata dallo studio e dall'applicazione di esso all'ambiente circostante: l'ecosistema sociale, appunto.

Le subculture legate alla conoscenza, allo studio (perché di più di una stiamo parlando), non si esprimono con codici estetici forti come nei movimenti giovanili del passato (punk), ma attraverso pratiche identitarie e spesso solitarie: sottrarsi alle piattaforme dominanti, coltivare progetti autonomi, dedicarsi alla riflessione critica e - non in ultimo - riscoprire la lettura. Qual è il punto comune? Non si tratta di rivoluzioni di massa, ma "isole" di resistenza culturale (e molto persone) che rispondono all’entropia comunicativa con un recupero di interiorità e di senso. Lo sto facendo io stesso nel redigere questo post.

Si tratta allora di una presa di posizione implicita: se i social network trasformano tutto in contenuto da consumare e i media alimentano una perenne ansia informativa, queste subculture scelgono la selezione, la crescita personale, i gruppi ristretti, tentano di trovare spazio e voce più ampi, ma con difficoltà e lentezza. Se l’ecosistema sociale dominante tende alla spettacolarizzazione, le subculture lavorano (o dovrebbero lavorare) sullo spostamento dell’attenzione verso la comunità ristretta e il rapporto diretto. Ma c'è dell'altro da tenere a mente, ed è proprio il motivo per cui ho scritto questo testo, da un'intuizione scaturita da un piacevole scambio di idee con un "collega pensante" nel fediverso e relativa a "un risveglio cognitivo delle masse". Lui ha detto: «Servirebbero figure in grado di rompere l'incantesimo della inconsapevolezza.»

Più che giusto, e spero di non aver frainteso il senso della sua frase, ma c'è da dire che "uscire" davvero dall'ecosistema dominante è quasi impossibile. Perché? Perché esso è talmente radicato nella società che non può essere "spezzato", soverchiato, annullato, ma è in continua evoluzione. In altre parole la storia dei fatti ci dice che qualsiasi subcultura (o controcultura) non è mai stata in grado di "cambiare il sistema", ma è stata inglobata dall'ecosistema dominante e trasformata a sua volta. Non sbaglia Fredric Jameson nel dichiarare che ogni tipo di rivolta è destinata ad essere "assorbita dall'organizzazione postcapitalista che che fabbrica il consenso macinando tutto fino all'omologazione". Nella mia personale (seppur contorta) visione Cyberpunk mi piace pensare all'ecosistema dominante come ad un Akira quieto, dai mille occhi, gigantesco e informe nella propria massa indistruttibile, che fagocita non esseri e oggetti, ma idee e movimenti, rendendoli parte del suo immenso sé. Non ci ricorda niente?

Ciò non toglie che le subculture debbano esistere, esse devono esistere, in un sistema di evoluzione del modello dominante che magari potrebbe (e sottolineo potrebbe) migliorare dal punto di vista etico. E tornano alle subculture odierne e al collega che ha riflettuto sulla necessità di uscire dall'inconsapevolezza, non posso dar torto al pensiero, ma alla modalità: non servono figure, ma modelli. Una vera rivoluzione subculturale deve manifestarsi da un fermento dal basso, dalla base della piramide, in caso contrario - in caso di figure "importanti" - non parliamo più di subcultura e vero cambiamento, ma di semplice moda. Questo è il rischio (o la naturale evoluzione) di una subcultura: è successo al punk degli anni '70, trasformato da moto di ribellione a moda.

Ma osserviamo anche un altro aspetto, quello a mio avviso più importante e che regala il titolo a questo post: le subculture decentralizzate. Negli ultimi anni si generano in maggior misura nella stessa struttura su cui proliferano, il fediverso, possiedono un genoma comune ma sono frammentate, personali, spesso blindate. Lo vediamo nei brillanti progetti di software open-source, nei blog personali, nei progetti autogestiti. Come nelle molte istanze del fediverso possono comunicare e interagire, ma sono "slegate", autonome, seppur "open" a volte rifiutano loro stesse il confronto, e quindi prive di una "forza unica centrale" presente nei modelli dominanti. È un bene che sia così, la decentralizzazione come carburante alla proliferazione di idee, ma rappresenta un punto a sfavore cruciale nell'infiltrazione della massa. E una subcultura deve (dovrebbe) inserirsi nella massa, altrimenti non sarà mai artefice di un "cambiamento" all'interno del sistema dominante, ma un'idea fine a se stessa, incompresa.

In conclusione - o non conclusione - le subculture proliferano, ma il senso di comunità, di avvicinamento globale che l'internet degli anni '90 aveva annunciato come imminente - e che si è poi manifestato in seguito nelle Mailing List d'avanguardia, nei primissimi forum dove l'entusiasmo e il senso di appartenenza sembrava volesse superare le barriere dell'isolamento ideologico, nelle "vecchie" zine comunitarie a carattere tecnico-politico - oggi non sembra (a mio avviso) realizzato. Non è un semplice senso di nostalgia, ma un reale distacco di ogni progetto dall'altro, che a volte sembra perseguire - e affrontare senza possibilità di vittoria - il modello dominante nella sua stessa linea d'azione (marketing, esaltazione personale, ipercondivisione); io stesso, osservando il mio lavoro con il distacco emozionale dell'"OA" mi rispecchio in questa stessa categoria. Per paradossale che sia, era molto più compatta la realtà punk degli anni '70 o l'ormai vetusto femminismo radicale (entrambi ormai svuotati del concetto di ideologia e relegati a "moda"), che l'eterogenia derivata dalle proposte (seppur lodevoli) delle attuali subculture dal carattere personale; e per paradossale che sia, è molto più unita e potente la realtà mediatica derivata dal modello dominante osservabile nei colossi dei grandi social network o anche le "idee", i risultati, i consigli - presi fin troppo alla leggera - delle IA, spesso ascoltate con più interesse dei "fratelli" umani.

_EOF

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Speculative fiction author about horror, thriller, fantasy and sci-fi
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Published with Smol Pub